La Repubblica ha pubblicato qualche giorno fa una bellissima inchiesta sulla scuola italiana e sulla vita dei docenti, raccogliendo testimonianze e, soprattutto, tentando di sintetizzare un quadro reso complesso dal sovrapporsi di norme e deroghe che ha caratterizzato il mondo dell’istruzione a partire almeno dagli anni ’80. Da settimane, poi, si susseguono appelli ed editoriali che nelle ultime settimane hanno riacceso un dibattito sulla scuola e sul significato dell’educazione che in questo Paese mancava da moltissimo tempo e che è probabilmente una delle poche buone notizie di questi mesi complicatissimi.

Inoltre, la discussione sulle procedure concorsuali che ha tenuto banco nelle scorse settimane in Parlamento ha spinto molti a tornare ad approfondire il tema, spinoso e urgente, del precariato.

Un buon sistema di accesso al ruolo per i docenti è garanzia per la crescita delle giovani generazioni e si fonda sulla qualità della procedura. E questo è tanto più vero quanto più si riconosce il valore della funzione docente. Non possiamo continuare a considerare normale che per diventare insegnanti di ruolo si debba passare attraverso un precariato dalla durata indefinita e incerta perché questo oltre a colpire la qualità della vita di chi aspira ad entrare nella scuola, finisce per influire negativamente sulla qualità del nostro sistema di istruzione.

Questo vale a maggior ragione in questa fase storica nella quale il docente è sempre meno il detentore di informazioni che vengono trasferite agli studenti e sempre più un punto di riferimento, anche critico, un attore di relazioni che giocano un ruolo cruciale nella formazione dei ragazzi e nella costruzione di quella cittadinanza consapevole e responsabile che è uno degli obiettivi fondamentali della scuola.

Insegnare è un mestiere difficile, una scelta impegnativa e ancora, purtroppo, non pienamente riconosciuta né dal punto di vista economico né sociale. Restituire credibilità al sistema di accesso può essere funzionale anche a questo. Il vero interrogativo, allora, è capire quale modalità sia davvero in grado di garantire la qualità del sistema scolastico.

Le vie per accedere all’insegnamento oggi sono varie. Oserei dire troppe. Frutto di una stratificazione, come dicevo in premessa, di politiche e interventi, spesso emergenziali o almeno pensati per il breve periodo, che, a volte, hanno danneggiato questa categoria professionale invece di farne gli interessi o tutelarne i diritti.

Come risposta alla selva di graduatorie e sottograduatorie che hanno imbrigliato il sistema per decenni, tenendo in ostaggio migliaia di insegnanti o aspiranti tali, come Partito abbiamo sostenuto convintamente negli anni passati un nuovo modello di reclutamento e di formazione iniziale. Tutto scritto nero su bianco nel decreto legislativo 59 del 2017, una vera riforma dell’accesso al ruolo, che contemplava anche una fase transitoria per tutti coloro che si trovavano nel limbo di qualche graduatoria. Una norma cancellata, però, con un colpo di spugna

Il nuovo sistema per l’accesso all’insegnamento nella scuola secondaria veniva strutturato in due fasi: un concorso nazionale, indetto ogni due anni su base regionale sui posti effettivamente vacanti e disponibili, e un percorso di Formazione iniziale e tirocinio (FIT), differenziato fra posti comuni e di sostegno al quale si poteva accedere a seguito del superamento del concorso.

Obiettivo del provvedimento era il riordino della formazione iniziale e del reclutamento dei docenti della scuola secondaria, nell’ottica della valorizzazione sociale e culturale della professione dell’insegnante. Tirare una linea per ricominciare in maniera chiara, assicurando agli aspiranti docenti un percorso definito, regole certe, concorsi frequenti, una progressione di carriera. Senza continui stop and go, false partenze e fasi di stallo, promesse disattese e frustrazione.

Ora che stiamo lavorando alla ripartenza della scuola a settembre, predisponendo azioni e interventi che consentano un ritorno alla didattica in presenza nel rispetto dei protocolli di sicurezza che l’emergenza sanitaria ha imposto, è opportuno ripensare anche ad un modello di formazione e reclutamento stabile nel tempo.

Settembre non può e non deve essere un punto di arrivo, ma va immaginato come un nuovo punto di partenza, adesso che abbiamo messo finalmente a fuoco tutte le criticità del sistema e che possiamo avere, anche grazie a quanto arriverà dall’Europa, le risorse che servono per ripensare spazi di apprendimento, laboratori, strutture, formazione, etc. Almeno 10 miliardi vanno investiti in questa direzione se vogliamo rendere credibile la nostra azione e tradurre in fatti le parole spese in queste settimane.

Da quando è scoppiata l’epidemia, soprattutto nelle settimane più critiche del lockdown, ci siamo trovati a discutere, quasi stupiti, del modo in cui il nostro sistema di istruzione ha retto all’onda d’urto del Coronavirus. La scuola, va detto senza tanti giri di parole, è stata una tra le principali istituzioni del nostro Paese a rimanere attiva in un momento di sospensione.

È riuscita a garantire formazione e, nei limiti del possibile, normalità, rimodulando le proprie metodologie e attingendo all’innovazione tecnologica. La didattica a distanza, che – come ho avuto modo di ripetere più volte – non potrà mai sostituire la scuola in presenza, è servita però a tamponare una crisi. E se tutto questo è avvenuto, è stato grazie a chi la scuola la fa materialmente ogni giorno. I dirigenti e il personale scolastico, certamente. Le famiglie e gli studenti. Ma anche e soprattutto i docenti.

Dicevo prima che ci siamo ritrovati a discutere di tutto questo quasi con sorpresa. E non l’ho detto a caso. Perché sebbene i nostri insegnanti svolgano un ruolo fondamentale quali guide ed educatori degli italiani di domani, non sempre riserviamo loro la giusta attenzione e, soprattutto, il giusto riconoscimento. Che è sociale, culturale, ma anche economico e professionale.

Ed è per questo che occorre, senza ulteriori tentennamenti, definire un nuovo sistema per l’accesso all’insegnamento, prevedendo innanzitutto una periodicità certa e stabile per l’accesso al ruolo dei nuovi docenti, ed un percorso che unisca una formazione iniziale, in larga parte svolta attraverso il tirocinio a scuola, ed una successiva procedura concorsuale.

Riducendo sicuramente i tempi previsti dal D.Lgs. 59/17 per il percorso formativo ed anche prevedendo forme retributive per i tirocinanti. All’epoca questo modello non è stato portato avanti per una precisa volontà politica, ma è a questo che dobbiamo puntare se veramente vogliamo dare ai nostri insegnanti il giusto e doveroso riconoscimento del loro valore e del loro ruolo. Concretamente e costantemente, senza appellarci in via solo teorica alla loro passione e alla loro dedizione.

Questo impianto avrebbe il merito di rivoluzionare il sistema di reclutamento legandolo indissolubilmente alla formazione (iniziale e in itinere, sempre più necessaria, ce ne siamo accorti tutti con evidenza durante questa pandemia) e dando regole certe e univoche.

L’obiettivo prioritario è garantire un’attenzione maggiore agli aspetti pedagogici e metodologici della funzione docente, privilegiando un approccio sistemico a dei problemi endemici del comparto scuola. E – senza dubbio – questo percorso dovrebbe essere parte di un disegno di valorizzazione più ampio, partito con il rinnovo contrattuale ottenuto dall’allora Ministra Valeria Fedeli dopo quasi un decennio di blocco e che può essere rafforzato anche grazie alle risorse stanziate nell’ultima legge di bilancio.

Dobbiamo abbandonare la logica della “premialità una tantum”, soprattutto quando è figlia del coinvolgimento emotivo come nel caso di questa epidemia, e dare corpo a interventi strutturali, dei quali abbiamo bisogno se vogliamo costruire fondamenta salde per il futuro del Paese. Per farlo dobbiamo guardare un po’ oltre il nostro naso, assumerci la responsabilità di decisioni necessarie e non più rimandabili, senza le quali alla prossima crisi ci troveremo ancora e di nuovo impreparati. Fare della crisi un’opportunità significa anche trovare il coraggio di fare delle scelte. Oggi più che una possibilità è un dovere, per chi governa, riuscire a farlo.